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Brits do it better #1 : Sherlock

Ovvero: come riscrivere un classico e renderlo un nuovo classico facendolo rimanere il classico che era.
BBC One, due stagioni, la prima nel 2010 e la seconda nel 2012 da tre episodi di 90’ ciascuno.
Il 31 ottobre inizierà la terza stagione e nemmeno vi sto a dire l’hype!
Steven Moffat, autore di Doctor Who, ha preso il padre di tutti i detective del mondo e l’ha fatto nascere nella Londra di oggi.
“Banale” direte voi, “queste attualizzazioni di solito fanno pena”, aggiungerete.
La pensavo così anche io.  Poi l’ho visto.
Quello che vi troverete davanti guardando Sherlock non è uno Sherlock qualsiasi ma è LUI, nella vostra mente ogni altra interpretazione, rielaborazione, trasposizione o come cavolo la volete chiamare, del detective viene oscurata, che dico, cancellata da questa serie, da un gruppo di attori eccellenti e da una scrittura semplicemente perfetta.
Ma andiamo con ordine.
Il ruolo di Sherlock viene affidato a Benedict Cumberbatch (visto nell’ultimo film di Star Trek) e a Martin Freeman  il ruolo del fedele Watson (Bilbo ne Lo Hobbit). Per chi ha visto qualche vecchio film ma non ha letto mai una riga di Arthy (Sir Arthur Conan Doyle mi piace chiamarlo così, concedetemelo) una delle prime sorprese è che Watson non viene rappresentato come un attempato e cicciotto signore poco intelligente, ma come un uomo colto e pure piuttosto figo (a parer mio). Chi ha letto i libri sarà molto felice di questa differenza perchè in effetti il personaggio che viene fuori dal film sembra esattamente quello che Arthy si era figurato. Stesso discorso per Sherlock che ricalca perfettamente il personaggio del libro, sin dalle prime battute pronunciate quando incontra Watson il pensiero immediato per i lettori è che Arthy questo straordinario personaggio, doveva esserselo immaginato proprio così.
La cosa che sorprende di più di quest’ennesima trasposizione è la capacità di rendere incredibilmente attuali e reali due personaggi pensati alla fine dell’800 riuscendo, nello stesso tempo, a non cambiarli e snaturarli, mantenendo le loro caratteristiche tanto da rendere quest’adattamento più vicino ai libri di quanto, paradossalmente,  non lo siano stati finora i tanti film (a partire da quello con Robert Downey Jr.) ambientati nell’epoca ‘giusta’.
Le sorprese non terminano qui. Il caro Moffat rielabora totalmente i libri riadattandoli in maniera tutt’altro che letterale ma riuscendo a mantenere l’anima e l’atmosfera che si sente leggendoli. Riprende le stesse storie ma non cerca di riadattarle parola per parola, mantiene gli elementi cardine e stravolge tutto il resto.
La chimica perfetta tra i due protagonisti, ma soprattutto tra gli attori che li interpretano, i dialoghi brillanti, gli accenti, la meraviglia di una Londra moderna protagonista anch’essa insieme a Sherlock e Watson e  le atmosfere così intimamente british fanno il resto. E non è poco.
Come vi ho già detto nel post introduttivo, anche in questa serie inglese l’attenzione ai dettagli, non solo visivi, ma di ogni singola parola e musica, rende la visione spettacolare e si ha la percezione che ci sia davvero un grande impegno e dedizione in ogni passaggio della produzione, nulla viene lasciato al caso.
Non vi dico altri dettagli per non rovinarvi la “proiezione” ma credetemi tutti i procedurali e i polizeschi, pure i più riusciti, scompaiono di fronte a questa serie. E poi, se Sherlock è il padre di tutti i detective, Moriarty è sicuramente padre, madre e nonno di  tutti i migliori cattivi machiavellici della storia della tv.

In conclusione: conosco diversi amanti di Artur Conan Doyle e nessuno di loro (io per prima, come avrete vagamente intuito) è rimasto insoddisfatto da tale trasposizione. Ma questa è solo una delle tante ragioni per vederlo.
@billabi

Brits do it better : Introduzione

Gli Inglesi sanno fare televisione. E che televisione.

Questo è un post introduttivo di una lunga serie che pubblicherò presto, dedicati ai telefilm Made in England.
Negli ultimi anni le idee seriali più originali e innovative arrivano sempre più spesso dall’Inghilterra, e anche quelle che possono a prima vista sembrare ‘classiche’, vengono affrontate in maniera nuova con una scrittura da fare invidia al 90% (vabbè dai facciamo 80% che oggi sono buona) delle produzioni americane e cinematografiche e con una cura maniacale nei dettagli, soprattutto nelle ricostruzioni storiche (Downton Abbey e Ripper Street, solo per citarne un paio), a tal punto da  piacerci guardandole pure senza l’audio.

Finora siamo stati abituati ad associare il concetto di serialità televisiva ai telefilm americani, a forza di seguirli abbiamo capito i loro tempi di programmazione, abbiamo imparato che hanno gli episodi speciali a seconda del periodo (come per Halloween o la Festa del Ringraziamento); che una stagione è solitamente composta da una ventina di episodi e di solito se una serie fa buoni ascolti la si porta avanti ad ogni costo, anche se poi finirà per snaturarsi e imbruttirsi, come è successo a Dexter (non uccidetemi) serie che amo follemente ma che penso sia stata  “tirata” un po’ troppo per le lunghe.
Ecco gli inglesi funzionano un po’ più per fatti loro.
Una delle prime cose da imparare è: “gli inglesi sono sintetici”.
Non vi ritroverete MAI a guardare una stagione di venti episodi, di cui 4 o 5, quando va bene, sono superflui o proprio brutti, ma al massimo di 1o o 12, al limite ci aggiungono lo speciale di Natale, se proprio ne hanno voglia. Se decidono che una serie deve avere 6 episodi state pur certi che non diventeranno magicamente 12 per stare dietro alle richieste del pubblico, non gli piace allungare il brodo, o il tè, e non girano costantemente, come negli USA, hanno anche altro da fare questi qui. Sanno essere meravigliosamente snob. Come solo i britannici doc sanno fare. 😉
Le date di inizio delle stagioni sono variabili, può succedere di aspettare due anni per la stagione successiva della nostra serie preferita (Sherlock: prima stagione 2010 e seconda stagione 2012) semplicemente perchè gli attori o gli autori avevano altro da fare, appunto, ma l’attesa è sempre ripagata.

Accennavo al fatto che tirano fuori idee originali e coraggiose che gli americani non si sognerebbero nemmeno, cito solo Hit and Miss, serie su un trans killer di professione che si ritrova inaspettatamente con un figlio, avuto prima di iniziare la transizione, di cui occuparsi; per non parlare degli scenari apocalittico-conspirazionisti di Utopia o della esasperazione tecnologica di Black Mirror; o la bucolica campagna inglese durante la post-apocalisse zombie, con degli zombie adorabili, di In The Flesh.
Quando non si avventurano in zone inaspettate riescono comunque a tirare fuori piccole perle come My Mad Fat Diary, teen drama ambientato nell’Inghilterra degli anni ‘90 che meriterebbe di essere visto anche solo per la splendida colonna sonora (chi ha detto Blur e Oasis?).
Una cosa che non smette mai di sorprendermi è che queste produzioni sono spesso targate BBC. Una tv pubblica, “LA” tv pubblica. Se penso che la cosa più ‘innovativa’ che la RAI è riuscita a partorire in questi decenni è stata “Tutti pazzi per amore” mi rattristo.

Sempre in tema BBC ci tengo a ricordare la splendida The Hour, ambientata alla fine degli anni ‘50 che racconta il primo programma di approfondimento giornalistico in diretta. Praticamente la BBC che racconta se stessa. Con atmosfere che ricordano vagamente Mad Men ma al posto di Don Draper, abbiamo una splendida Bel Rowley.
Mi fermo qui perchè quello che doveva essere un post introduttivo sta diventando una trattazione. Fra pochi giorni primo articolo su Sherlock.

@billabi